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Piccoli Azionisti Ignorati: Quando il Capitalismo Diventa Elitario

Scusate il disturbo: piccoli azionisti trattati come sciroccati, così il capitalismo è affare di pochi
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Pubblicato da Enzo Conti
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Una modifica del Testo Unico della Finanza limita la partecipazione degli azionisti minori in assemblea, minando le basi del capitalismo.

Recentemente, vi abbiamo informato riguardo una prossima riforma delle OPA (Offerta Pubblica di Acquisto) relativa alla definizione delle soglie che innescano il lancio dell’offerta sul capitale residuo. Questo cambiamento potrebbe aumentare la competizione per il controllo delle società italiane, tornando alla cosiddetta “legge Draghi” del 1998, inclusa nel Testo Unico della Finanza (TUF). Un’altra importante novità, che sarà attuata solo se supererà l’approvazione parlamentare, riguarda i piccoli azionisti. Denominata dai media la norma anti-“disturbatori”, prevede che solo gli azionisti che detengono almeno lo 0,1% del capitale con diritto di voto possano prendere la parola nelle assemblee.

Soglia del 0,1%

Qual è l’intento di questa riforma? Prevenire che un elevato numero di piccoli azionisti intervenga in modo pretestuoso durante le assemblee, rallentandone i lavori. Potrebbe sembrare un cambiamento positivo per la riduzione dei tempi delle riunioni, tuttavia si presenta anche come potenzialmente incostituzionale. Inizialmente, lo 0,1% può sembrare insignificante, ma in termini assoluti può rappresentare decine di milioni di euro. Considerate società come Unicredit o Intesa Sanpaolo, il cui valore di mercato supera i 100 miliardi di euro ciascuna. Con la riforma, solo i soci con un investimento di almeno 100 milioni di euro potrebbero esprimersi. In pratica, solo i soliti noti.

Il modello di public company si allontana

A prescindere dagli importi coinvolti, ciò che realmente conta è che i piccoli azionisti non si presentano alle assemblee per creare disturbo. Essi rappresentano interessi legittimi, sono investitori che sostengono il mercato dei capitali. Senza di loro, le eminenti famiglie del capitalismo italiano potrebbero agire indisturbate.

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Limitare la loro possibilità di parlare è come negare a un cittadino pagante le tasse il diritto di esprimere le proprie opinioni. La riforma ridurrebbe i piccoli investitori a soci di serie B. Si verrebbe a creare una situazione in cui si richiedono i loro soldi ma non la loro voce. E per quale motivo? Non si sono mai sentite lamentele da parte dei dirigenti aziendali riguardo la durata delle riunioni o la qualità degli interventi. Siamo realisti: sono pochi quelli che partecipano e parlano, esclusi i grandi azionisti.

Certo, i piccoli azionisti potrebbero trovare modi per aggirare il divieto, ad esempio delegando uno di loro che raggiunga lo 0,1% richiesto per poter intervenire. Comunque, ciò comprometterebbe il concetto di public company, già poco considerato in Italia. Queste sono imprese quotate che non sono dominate da grandi azionisti e spesso bastano piccoli movimenti di capitale per influenzare le decisioni. Le assemblee sono fondamentali come momenti di dialogo e decisione. Pensiamo a chi investe tutti i propri risparmi in borsa, somme che possono essere modeste per una grande azienda ma significative per il singolo investitore, a cui vorremmo negare di esprimersi.

Piccoli azionisti malvisti dal capitalismo delle grandi famiglie

Quando parla un piccolo azionista, ai grandi poco importa. Tuttavia, ciò non significa che debba rimanere inascoltato dagli altri piccoli come lui. Dovremmo ammettere apertamente che non desideriamo un capitalismo diffuso, preferendo che le aziende rimangano nelle mani dei fondatori o dei grandi azionisti. Sarebbe più onesto. Ma non possiamo continuare a lamentarci della scarsa educazione finanziaria degli italiani, chiedendo loro di investire di più e meglio in borsa, ma al contempo trattandoli come incapaci. Se il capitalismo deve rimanere un club esclusivo per poche famiglie, allora non dovremmo disturbare i cosiddetti disturbatori.

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giuseppe.timpone@investireoggi.it 

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