In questi giorni, tutti gli occhi sono puntati sulla Cina. Con il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la gigantesca economia asiatica si ritrova nuovamente sotto il mirino delle politiche della nuova amministrazione a causa dei suoi ingenti surplus fiscali. Le ultime cifre ufficiali rivelano che, nei primi dieci mesi dell’anno, le esportazioni nette della Cina sono cresciute del 16%, raggiungendo i 785 miliardi di dollari, stabilendo un nuovo record storico. Nei primi tre trimestri, queste hanno rappresentato il 5,2% del Pil, un valore superiore alla media dell’ultimo decennio.
Di fronte alla minaccia dei dazi di Trump, si alzano i timori di una possibile deprezzamento dello yuan. L’India ha già annunciato che risponderebbe in modo simile deprezzando la sua rupia se Pechino decidesse di procedere in questa direzione come reazione alle politiche di Washington.
Potenziale guerra valutaria con deprezzamento dello yuan
La situazione sta diventando tesa. Trump ha minacciato di imporre dazi fino al 60% sulle merci cinesi. Il presidente Xi Jinping potrebbe reagire colpendo una lista di aziende americane che hanno interessi in Cina. La sola minaccia potrebbe costringere le multinazionali americane a esercitare pressioni sul proprio governo per evitare un confronto diretto tra le due superpotenze. Tuttavia, una risposta sistematica di Pechino alle tariffe americane potrebbe consistere proprio in una deprezzazione dello yuan.
Un yuan più debole, determinato dalla Banca Popolare Cinese (BPC), renderebbe meno costose le merci esportate in tutto il mondo, attenuando almeno in parte gli effetti dei dazi. Questo, però, potrebbe scatenare una “guerra valutaria”, con tutte le economie del sud-est asiatico che si precipiterebbero a deprezzare le proprie valute per non essere svantaggiate rispetto alla Cina. Ciò causerebbe caos sui mercati finanziari.
Debolezza economica cinese con crisi immobiliare
Finora la deprezzazione dello yuan non si è verificata e non è certo se avverrà.
In un mese e mezzo, il dollaro ha guadagnato il 2,6% rispetto alla valuta cinese. Si tratta di movimenti di mercato, in gran parte riflessi del “Trump trade”. Inoltre, la BPC ha ridotto più volte i tassi di interesse negli ultimi anni, portandoli al 3,10% lo scorso mese. In realtà, qui non solo non c’è una minaccia di inflazione, ma si teme la deflazione. I prezzi al consumo a ottobre sono aumentati dello 0,3%. Negli ultimi cinque anni, l’aumento è stato del 3,7%, con un tasso medio annuale dello 0,74%.
La domanda interna è debole, principalmente a causa della grave crisi immobiliare che ha paralizzato l’economia. Senza le esportazioni, il Pil sarebbe probabilmente entrato in recessione. Di recente, il governo centrale ha annunciato un piano quinquennale da 10.000 miliardi di yuan (circa 1.400 miliardi di dollari) per alleggerire i debiti dei governi locali e permettere loro di sostenere le economie locali, creando nuovi spazi per interventi fiscali. Questo, però, limiterà le manovre di Pechino. I deficit sono già elevati, avendo chiuso il 2023 con un disavanzo complessivo del 5,8% del Pil. Dal 2026, il Tesoro emetterà 800 miliardi di yuan in più all’anno per cinque anni per coprire i debiti. Di tutto ciò di cui la Cina ha bisogno, sicuramente non è una deprezzazione dello yuan che allontanerebbe ulteriormente i capitali stranieri.
Cambio non trasparente
Inoltre, Xi ha passato più di 11 anni al potere cercando di promuovere lo yuan come alternativa al dollaro, almeno a livello regionale. Questo sarebbe in contrasto con una possibile deprezzazione, che potrebbe comunque verificarsi per mancanza di alternative e per condizioni macroeconomiche poco vivaci. A peggiorare la situazione c’è la scarsa trasparenza nei criteri di fissazione del cambio.
Non è chiaro come le autorità gestiscano quotidianamente il cambio. Questa mancanza di trasparenza può generare speculazioni e accuse in qualsiasi momento. Già il recente indebolimento potrebbe spingere Trump a imporre dazi non appena insediato, notando come la Cina continui ad accumulare surplus commerciali sempre più grandi e come la sua valuta perda valore sul mercato forex.
L’Europa, inizialmente, trarrebbe vantaggio dalla deprezzazione dello yuan, poiché importerebbe merci e materie prime a costi più bassi. In assenza di dazi reciproci, ciò porterebbe a una riduzione dell’inflazione nel continente. Tuttavia, col tempo, questa mossa potrebbe aggravare lo squilibrio commerciale già marcato a favore dell’economia asiatica. Rischiamo di assistere passivamente alla scomparsa della nostra manifattura, schiacciati tra un’America sempre più competitiva e una Cina in chiave autarchica.
Deprezzamento dello yuan, una calamità per l’UE
Se è vero che gli Stati Uniti lamentano un eccesso di importazioni dalla Cina, l’Unione Europea è in una situazione ancora peggiore. L’anno scorso, il nostro deficit commerciale con la Cina è stato di 291 miliardi di euro, mentre quello degli USA è stato di 279 miliardi di dollari. E a differenza degli americani, che dispongono di alcune materie prime, noi europei no. Inoltre, le multinazionali americane producono gran parte delle merci che poi vendono sul mercato domestico, mentre noi dipendiamo in gran parte da aziende cinesi per le nostre importazioni. Un deprezzamento dello yuan sarebbe solo l’ultima calamità per un continente già devastato dalla mancanza di politiche efficaci.
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Enzo Conti è profondamente radicato nella cultura italiana, grazie al suo lavoro di ristoratore e promotore del patrimonio locale. Il suo ristorante non è solo un luogo in cui gustare i sapori della Puglia, ma anche uno spazio dove cultura e storia si incontrano. Enzo organizza eventi per far conoscere le ricchezze della regione, affrontando anche questioni di società, politica locale e preservazione dell’ambiente attraverso il cibo.